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di Christian Panzano,  2 dicembre 2013

Sugne, secondo album licenziato dalla Sossio banda, è una miscela culturale racchiudibile in una griglia di parallelo geografico non necessariamente limitato a ragione dell’idea stessa di medis terrae. Ed eccolo dunque il segnale, il letale balocco di rimandi ad ombra di un caravanserai su cui si disegna architettonicamente un sentiero di mondi lontani, che si aggrava di una diluita integrazione. Centro del fausto apostolato l’altopiano delle Murge che come un burda dona canicola e sollecita a ridiscutere i confini che dalla conca bradanica lambiscono la piana brindisina, l’Ofanto, il Tavoliere e riannoda la tradizione grecanica calabro-salentina – non limitandosi in alcun modo alla caratteriale murgese (Uaragniaun) – con lo spiritualismo maquam e l’emotività araba (Mere amere), tirando in ballo misticismo sufi, minimalismi debke e contemporaneità (Murgia Murgia).

Si potrebbe sintetizzare dicendo che l’idea di mondo che Sossio vuole anticipare a conguagli futuri non soffre di totalismo, ma osa nel reinterpretare costumi senza eccedere o peccare di ingenua regionalità. Il bandismo coglie magari una gloriosa luminosità di scena (Addòu fernèsce u sud) con acustica affezione, riesuma il vento delle pedane spinte per le piazzole e si inorgoglisce di impudenza klezmer anarcoide (La sagre de le struminde, Murgia). Le vesti più vermiglie si cuciono alla perfezione grazie alla gavetta a stretto giro Avitabile – e ciò che se ne può trarre – del sassofonista e allo zibaldone timbrico che scalda il dialetto attraverso cori, fiati e parafernalia in un godibile equilibrio che fa di Sugne una Samarcanda pronta a rianimare la via della seta.